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I racconti, i sogni, le speranze, i pensieri.. di tutto un po', per chi crede che Someday I'll be Saturday Night!

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DdV 3 - New Jersey (finding Jon)

La mia avventura nel New Jersey comincia nel segno del caldo atroce, con un viaggio su e giù per tre treni e un'attesa infinita di un taxi che si degni di passare per la stazione -chi me l'ha fatto fare?? ah sì, Jon Bon Jovi. Finalmente arriva il taxi, così posso fare un po' di conversazione: cosa fai qua? Dall'Italia per un concerto?! E che lavoro fai? A chi è che insegni italiano, in Italia? Non lo sanno già? Comunque il tuo inglese è ottimo! Mi raccomando vieni a vedere anche a me, un giorno o l'altro suonerò anch'io negli stadi! Sìsì certo come no. Finalmente arrivo al mio residence, suite con vista stadio e autostrada tutt'intorno, non posso muovermi se non in taxi. Ottimo. Quindi mi chiudo in camera, sperimento il lavaggio a mano delle maglie -esperimento perfettamente riuscito!- e mi preparo un panino. I panini sono già tagliati, fantastico. Poi mi cucino una pasta per cena, e scopro che qui non ci sono i fornelli normali, bensì delle piastre che diventano rosso fuoco quando si scaldano... prima di capire che non dovevo aspettare la fiamma, c'ho messo un po'.

La prima notte trascorre al freddo e al gelo, thanks to il termostato impazzito. Il giorno pre-concerto è dedicato alla visita di Perth Amboy, città natale di Jon, dove do per scontato che lo incontrerò, perché sicuramente sarà lì a riposarsi. E infatti... faccio colazione in stazione con una tipica Donut locale e un altrettanto tipico caffè-sbobba, dopodiché salgo in treno con un giornale da leggere. Perth Amboy è carinissima, sembra di essere in Wisteria Lane: casette con l'orto, la scaletta, il patio, la bandiera americana in giardino; la spiaggia sul.... canale, l'aria che sa di salso. Nell'ipod ho le canzoni dei Bon Jovi, che in qualche modo acquistano ancora più senso, in questo contesto. Dopo aver percorso tutto il lungocanale, mi rassegno a non incontrare Jon a passeggio col cane e mi siedo in un ristorante locale a mangiare un boccone. Che si concretizza, per appena $10, in acqua ghiacciata, insalata con salsa di gorgonzola, tortine di granchio con salsa d'aragosta, patate al forno, dessert che non prendo, preferendo un espresso... condito alla cannella, ahimé. Nel bel mezzo della degustazione delle tortine, succede l'imprevedibile: dalla strada accanto al ristorante arriva una berlina nera, mette la freccia e svolta... alla guida, Jon che parlava all'auricolare, bello come non mai. Alla fine, avevo ragione. Non riesco più a mangiare, naturalmente, perciò il cameriere mi chiede se deve mettermi via gli avanzi da portare a casa... nono per carità. Torno indietro, non perdo l'occasione di scendere nella spiaggia e mettere i piedi nell'acqua -gelata, pur sempre oceano è- e torno alla stazione attraversando i quartieri più degradati della città. Pronta per il concerto.

La prima cosa che salta agli occhi è che i taxi non hanno il tassametro, perché la tassa è trattabile. O meglio, è fissa. Che mi porti alla stazione o dall'altra parte dell'(auto)strada in 5 minuti scarsi, i soldi sono sempre gli stessi. Il caldo è soffocante, chi me l'ha fatto fare quella volta di comprarla a maniche lunghe, la maglia dei Bon Jovi?? Lo stadio è imponente già da fuori, e per chi segue da un po' questo gruppo, è un vero sogno: il vecchio Giants Stadium, lì accanto e quasi demolito, è un vero cimelio della storia dei BJ. Arrivo durante le ultime prove, perciò da fuori sento già un'anteprima di alcune delle canzoni che suoneranno. Finalmente si aprono i cancelli, arrivo al mio posto e ammiro i 3 anelli di questa "home of the Giants and the Jets!" che sarà anche la sede del Super Bowl. Calcolo circa 100 mila posti, di cui alcuni davvero TANTO in alto. Come al solito in USA, anche in campo i posti sono a sedere, numerati, che è positivo per evitare resse e malori e dare la possibilità a chi vuole di sedersi. I sedili hanno i portabibite, e sono terribilmente scivolosi. Accanto a me si siedono una famiglia di alcolizzati con bottiglie di vino ovunque e due tipiche americane ultra obese. Contrariamente a quanto mi era stato detto, gli americani sono tutt'altro che freddi ai concerti, anzi. Dopo l'apertura degli OneRepublic (quelli di "Apologize") comincia il concerto, con un jingle "this is our house" e poi due delle mie canzoni preferite "Who says you can't go home" e "We weren't born to follow". Tre ore e mezza di concerto, e quando Jon ringrazia noi della nostra fedeltà, perché lui non sarebbe dov'è, io penso che devo ringraziare lui, perché non sarei dove sono se non fosse stato per quei biglietti che avevo da mesi. Adesso so che comincia una nuova fase, senza rimpianti e senza "come vorrei essere stata lì", perché adesso ci sono e vivo ogni minuto al meglio. Per gli appassionati dei BJ, ecco la scaletta:
All'uscita dallo stadio, provo a chiamare per un taxi ma a quest'ora non ne mandano. Quindi mi rassegno a sedermi sul guard-rail insieme ad altri sconsolati e ad aspettare. Una guardia cerca di bloccare le macchine in arrivo con una luce fosforescente, per avvisarli di fare inversione perché è tutto bloccato e ci metterebbero più di un'ora a proseguire, ma nessuno lo caga: "I hate my fuckin' job!" Finalmente arriva il taxi, dopo quasi un'ora, e divido la strada con padre e figlio di Indianapolis. E' ora di andare a dormire, e di cominciare una nuova fase del mio viaggio.

DdV 2 - Prime impressioni

La prima pagina del mio taccuino dice “my dream is....”: troppi pochi puntini, la lascio in bianco. Parto da casa convincendo Ma' che nonostante la valigia sia mezza vuota, non porterò via Klappar l'ippopotamo. All'aeroporto saluto Pa' e Gogo e mi dirigo con non-chalance al check-in. Primo controllo passaporto, superato il quale mi viene fatto presente che il beauty vale come valigia, perciò paghi la tassa grazieeee. La grande novità del body scanner c'è, a Venezia, ehhh sì. Bello. Chiuso. Inutilizzato. Che bella spesa. L'aereo è puntuale, ci servono il pranzo -cheese maccaroni, meglio di quanto si possa pensare- e constato che la gente esagera. Quando dicono che c'è tanto spazio per le gambe, o che non ce n'è per niente -lo spazio è il solito-, che ti danno un sacco di cose -un cuscino e una vestaglia, che credevo fosse una coperta-, che devi camminare altrimenti ti si blocca la circolazione e fai una paralisi -mi sono alzata una volta e non ho avuto nessuna controindicazione. Mi godo due film, di quelli che di solito si vedono sotto Natale, e constato anche che un volo transcontinentale non è più silenzioso, anzi. Quando il pilota annuncia che atterreremo con un'ora di anticipo, il mio vicino si entusiasma e si lancia a raccontarmi i suoi quindici giorni in giro per l'Italia. Una volta scesa, e imboccati i mille labirinti che portano all'uscita, mi metto in fila tra i “visitors”, e mi viene detto che devo compilare il modulo verde. Che è uguale all'ESTA, che ho già fatto, e che mi chiede di nuovo se sono parente di Bin Laden. NO, CHE CAZZO. Dopodiché mi metto in fila per i controlli, cosa che ti fa sentire molto ben accetta in questo paese. Un cartello mostra la procedura -impronte digitali della mano destra, poi della sinistra, poi foto digitale- e conclude “welcome to the USA”... ammazza, e se non ero welcome?! Vanificata l'ora di anticipo, spiego alla poliziotta che sono una turista... “e stai a Bensalem?! A far cosa?!” Sono ospite di un'amica, SANTO DIO!!! Recupero le valigie, ormai scaraventate via dal nastro trasportatore, ed esco. Finché non sono in strada non ci credo, che non devo fare altri controlli.

Dopo una rapida chiamata a casa, mi trascino al primo taxi libero, e fornisco l'indirizzo di Mel. Il dinamico autista, per programmare il navigatore, finisce sopra il marciapiede, ma è tutto sotto controllo. Poi mi fa fare la conoscenza di una tradizione locale: l'aria condizionata sparata a 2000. Le mie cervicali ringraziano. Lungo la strada vedo i grattacieli che caratterizzano lo skyline di Philadelphia, e il ponte: queste sono le prime immagini che registro. Alla fine, il simpatico tassista non trova la strada giusta "I cant see numbers, I cant see!" e mi risolvo a chiamare Mel per farmi venire a prendere. Il clima è quello che a Venezia definiamo "sòfego", una cappa di caldo umido che all'equatore si sta meglio. Dopo aver depositato le valigie alla mercé dei gatti di Mel, facciamo un salto al supermercato locale -in macchina, ovviamente. Le auto qua sono enormi, d'altra parte pure le strade sono sterminate. Al supermercato c'è la mia amica Aria Condizionata ovviamente, nel reparto frutta e verdura invece si scatena la tempesta: si sente tuonare, poi parte una pioggia leggera per innaffiare i prodotti esposti -coreografie made in USA. I prodotti -frutta, verdura, pane, affettati- durano anche un mese, in frigo, aperti. Gulp. Infatti gli affettati si comprano non all'etto, ma al pound... mezzo chilo, che tanto dura! Per cena per fortuna cucina Mel, e si mangia la pizza di carne, poi si va a dormire... o a giocare con Ninì la gatta, nel mio caso, grazie al jet-lag.

Il giorno dopo sono a dir poco rintronata dalla notte in bianco, quindi mi dedico ad un po' di Internet. Quando il Mac si scarica, scopro con disappunto che il costosissimo trasformatore vendutomi in Italia come indispensabile non serve, bastano gli adattatori. Hmmmmmmm. Nel pomeriggio facciamo un giro al Mall, il centro commerciale, con Mel e la sempre presente Aria Condizionata. Al Mall si trovano tantissime marche scontate, anche in periodi a caso durante l'anno: non è come da noi, con i periodi fissi di saldi. Infatti il negozio Guess spara le borse a 25 dollari, e il negozio Levi's ti tira dietro i jeans a 30. Di contro, maglie improbabili di D&G e Missoni arrivano a 500-600 dollari, ma partivano da 2-3 mila! Tra i corridoi del mall si trova di tutto: distributori di caramelle, massaggiatori, estetiste che depilano le sopracciglia e il labbro CON UN FILO DA CUCITO, stand che per venderti i trucchi e farti vedere come ti stanno ti truccano gratis. I manichini di molti negozi hanno la sesta di reggiseno... modelli di bellezza locali; al negozio Nike vendono il portamonete da agganciare alle scarpe da ginnastica; il negozio Lindt sta chiudendo, perciò svende 4 pounds di Lindor (2 chili) a 7 dollari... troppo anche per me, le supersize locali stanno mettendo a dura prova perfino la mia innegabile voracità. Tutti i commessi sono super sorridenti, e anche se è una posa mi piace da morire il saluto "Hi, how're you doing?" che sembra gliene freghi qualcosa. Dopo un salto da Victoria's Secret -che esiste davvero, non volevo crederci!- torniamo verso casa, e stanotte finalmente si dorme!

Il terzo giorno comincia benissimo, con la skyphonata a casa, e prosegue meglio, con la gita a Philadelphia. Il caldo è torrido, l'escursione termica tra l'interno e l'esterno penso sfiori i 20 gradi. I biglietti del treno vengono obliterati dal controllore, sistemati sul tuo posto a sedere, e ritirati quando poi dovresti scendere. La prima tappa a Philly è la Liberty Bell, la campana simbolo dell'indipendenza americana. Alla quale è stato dedicato un intero museo con souvenir risalenti perfino al 1960... cimeli!!! I rangers non ci permettono di sederci sul preziosissimo muretto esterno -sarà stato costruito nel 1980, insomma!- e finalmente entriamo alla visita guidata alla Congress Hall, dove sono conservati altri preziosissimi cimeli... del 1700... la guida si entusiasma a parlare della migliore costituzione sulla faccia della Terra, difesa in quelle stanze... sì, siamo al centro del mondo. Dopo un gustoso pranzo messicano, andiamo nella zona dei grattacieli, che fino a non molto tempo fa non potevano esistere perché il limite d'altezza era il cappello della statua di Penn, il fondatore della Pennsylvania. Il caldo è torrido, ma c'è di buono che i grattacieli fanno ombra. Ci rifugiamo dall'amica Aria, in uno dei più recenti grattacieli, e dopo aver bevuto un frullato ci dirigiamo alla stazione, direttamente collegata al grattacielo, sottoterra. Il nostro treno è cancellato, perciò ci schiacciamo come sardine in quello successivo e poi andiamo a fare un po' di spesa: domani è tempo di partire, il New Jersey mi aspetta.

Diario di Viaggio 1 - La vigilia (quello che lascio)

Mancano poche ore all'aereo che mi porterà di là dell'oceano, pochi minuti alla puntata della mia fiction preferita, che vedrò stasera per l'ultima volta. E' stato un periodo di ultimi saluti e di ultime volte, qualche volta consapevoli molto più spesso inconsapevoli. Ovviamente, come ogni volta prima di voltare la pagina del mio scrap-book mentale, faccio un po' un bilancio di ciò che lascio e di ciò che mi porto dietro.
Lascio la mia città e i suoi ricordi. Ricordi belli e ricordi brutti, di una città vicina unica al mondo, e per questo così difficile da accettare, perché quando sei piccola pensi che tutti i bambini del mondo vivano vicino a una città di palafitte. Poi vedi le altre città e scopri che sono molto più simili a dove vivi tu, lì oltre il ponte, in terraferma. E allora adori Venezia con tutti i suoi difetti e odi Mestre con tutto il cuore. Oggi però posso dire di aver fatto pace. Pace col tram, coi ratti, con il Marzenego che puzza, con le ZTL assurde e la puzza di smog. Ma pace anche con l'odore del tramonto, dell'erba bagnata e del galletto... con le albe a S.Giuliano, con i parchi, le riviere. Porto via un po' di foto digitali, e tante, tantissime mentali archiviate dietro le mie palpebre: quando chiudo gli occhi, partono le slides.
Lascio una casa dove ho riso, pianto, amato, studiato, litigato. Ma della quale saluto sempre i muri, ogni volta che parto.
Lascio i miei tantissimi peluches. Swettie l'orso bianco seduto, Klappar l'ippopotamo, Quack la papera, Placidia la gallina. Da piccola davo la buonanotte a tutti i miei "1792" peluches (non che li avessi mai contati, era una stima per difetto). Da simil-adulta ho sempre dato la buonanotte a due di loro, Musetto-Nero-Clergygirl, la foca monaca, e Musetto-Grigio-Rabbie, la lepre. Perché erano i due di Hamleys', lì sul comodino a ricordarmi sempre che fuori da tutto ciò che mi stava stretto, dal lavoro che non sopportavo, c'erano altre sfide, altre opportunità, altri mondi possibili.
Lascio le sfide perse e quelle vinte, lascio le soddisfazioni e le delusioni, e mi porto dietro quello che mi hanno insegnato. Lascio le persone che ne valevano la pena, e quelle con cui ho perso tempo. Mi porto dietro la consapevolezza di aver dato quello che potevo, e qualcuno non saprà mai quello che si è perso.
Lascio le persone che mi amano, ma porterò con me i sorrisi, gli abbracci, l'amore che mi daranno sempre ovunque saremo, la forza che mi dà sapere di contare così tanto quanto contano loro per me.
Mi porto la voglia di raccontare, di vivere, di osservare, di sentire la vita che mi scorre nelle vene. E anche la paura, perché come dice Gogo "fa parte del gioco, è giusto che ti caghi addosso."
So che tornerò diversa, spero molto migliore, spero di portarmi via, al mio ritorno almeno la metà in più dei bagagli mentali che sto impacchettando ora.
La valigia è pronta, è tempo di chiudere il pc. E di accendere un'ultima volta la tv italiana, che almeno quella non mi mancherà.