Welcome, to wherever you are

I racconti, i sogni, le speranze, i pensieri.. di tutto un po', per chi crede che Someday I'll be Saturday Night!

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DdV 19 - Lo Spirito dei Natali Passati

Piacere, Luna Scrooge. Non credo sia una cosa recente, il mio odio per il Natale. Cioè. Intanto, da piccola significava stare a casa da scuola, e a me studiare piaceva tanto. Secchiona purosangue, eccomi qua. Poi c'era lo stress dell'albero (e ad anni alterni, pure il Presepe): religioso silenzio mentre Pa' srotolava le luci e altrettanto religiosamente bestemmiava a pieni polmoni perché qualcuna non funzionava. E poi cercava di spiegarci perché alcuni fili funzionavano anche se una luce era rotta e altri no... misteri della corrente a fili paralleli o quella roba là. Poi parolacce e urla belluine se non mettevamo le palline più grosse vicino al tronco, e lamenti selvaggi se l'albero era vero (dev'essere successo solo due volte, credo) perché spargeva aghi di pino ovunque. Insomma, 'na penitenza.

DdV 18 - In excelsis Deo

Non si accettano correzioni sul titolo, considerato che ho speso 2 ore a decidere quale fosse la forma giusta. Se poi le desinenze sono a casaccio, il pensiero è quel che conta.
La giornata inizia parlando di funerali. No, non è colpa del mio atavico pessimismo o della bufera di neve o di qualche altra tragedia, ma solo di scambi interculturali tra me e Toy, la giapponese. Perché se in Italia vige un monotono monoteismo cattolico, in Giappone hanno più fantasia e libertà di pensiero. Infatti quasi tutti sono buddisti. E si vestono di bianco e nero (rosso e giallo sono i colori tibetani), e vegliano il corpo tutta la notte mangiando sushi in compagnia (del morto, s'intende). Poi lo cremano e fanno i funerali al tempio. Si spende l'ira di Dio (no scusa, l'ira di Buddha) per fiori, bara, urna, e nome. Sì, nome. Perché quando qualcuno muore, gli si assegna un nuovo nome. E' il monaco a decidere il nome, in base ai soldi che gli sono stati dati. Poi parliamo di privacy, spiritualità e comportamenti mafiosi. Presente il pizzo??!

DdV 17 - Il laccio delle scarpe

"The people you've touched,
the way you've touched them
I hope they've touched you too,
'cause in this life it's hard to tell
what's false and what is true."

Non mi ricordo quanti anni avevo, forse cinque o sei, forse quattro addirittura. Inseguivo Ma' come un'ombra, laccio alla mano, implorandola di insegnarmi a farmi il nodo alle scarpe.

DdV 16 - La vita è adesso

A Toronto è il giorno di Ognissanti, ma per i canadesi è soltanto il giorno dopo Halloween. Ieri si è vista la prima neve -sì, in ottobre!!- ma dopo poco ha smesso perché la temperatura è scesa sotto lo zero -sì, sempre in ottobre!!! Perciò al Walmart faccio scorta di calze pesanti "in puro bambù".... .... .... che non hanno denari come in Italia, e nemmeno taglie, bensì vanno per peso "40-49 kg" o "50-59 kg" neanche fossero pannolini che cacchio!!!

DdV 15 - Nuovi orizzonti

Da un po' sto trascurando il mio blog, e me ne scuso con chi, allarmato dalla mia assenza, mi ha scritto accorati appelli per avere nuove dalla Terra della Foglia d'Acero. La mia non è stata pigrizia, ma -come i miei colleghi ex-masterini sanno perfettamente- una full-immersion nei meandri dell'insegnamento della lingua inglese, che mi ha fatto perdere ore di sonno ma non chili ahimé, visto l'abbondare di Nutella, e mi ha conferito ufficialmente il titolo di Ticcia dell'anglica favella.

DdV 14 - Nella Padania canadese

Dopo aver preparato Foulie (la valigia) con lo stretto necessario, mi avvio a tarda sera alla fermata del tram, destinazione: pullmann. Destinazione del pullmann: Québec, la regione dei secessionisti canadesi. Appena arrivata alla fermata, il dubbio mi assale: su quale dei TRE pullmann dovrò salire?! Il dubbio viene fugato da Brit, “la negra” come verrà ribattezzata dalle mie compagne di viaggio spagnole: seguimi, sei con me! Così mi accomodo, braccialetto da viaggio di gruppo al polso, e cerco la posizione adatta a dormire durante il viaggio... ricerca che si protrae per TUTTO il viaggio, tenendo il meritato riposo a debita distanza.

DdV 13 - Ticcia

Con Rui è stato amore a prima vista. Poco importa se è fidanzato, e con una poliglotta per giunta. Sì perché Lei parla "un'altra lingua europea". Ah, sì? E quale? L'italiano? No. L'inglese? Ovvio che parla l'inglese, siamo in Canada! No, un'altra. Ok, allora il francese? Lo spagnolo? Il tedesco? Il russo? No,no. Ah ecco! Il taiwanese!

DdV 12 - I've seen a million faces, and I rocked them all



Chi non è appassionato dei Bon Jovi può saltare questo post, non ne soffrirà di certo.
Invece Tu, Fedele Lettore che continui a leggere nonostante sappia già l'argomento, ecco la cronaca del secondo concerto di quest'anno, il sesto in assoluto, della rock band più.... più che ci sia.

DdV 11 - La giornata tipo

La domanda più frequente che mi è stata fatta da oltreoceano è: "ma spiegami, com'è la tua giornata tipo?". Domanda vasta, non c'è che dire. Dunque, la mia giornata tipo comincia verso le 9.30, quando le coinquiline sono uscite per andare a scuola ed io mi alzo per fare colazione, facendo lo slalom sulle tavole di legno del pavimento e riuscendo puntualmente a calpestare quelle più scricchiolanti, per la gioia di MM. Poi inizia la seduta quotidiana di psicanalisi delle persiane. Sì, perché le persiane americane sono delle specie di tendine che si tirano per abbassarle e si tirano lo stesso per riavvolgerle, ma le mie non sono tanto portate a riavvolgersi. Perciò raggiungono quasi il pavimento, prima di convincerle che il loro destino in questo mondo è anche quello di riavvolgersi, di giorno. Una delle due ha preso la sua missione sul serio, e adesso si riavvolge di colpo in piena notte, di sua spontanea volontà. Sigh.

DdV 10 - Waka Waka fever

30 giorni fa più o meno, io ballavo davanti al pc cercando d'imparare le mosse sinuose di Shakira. La nonna Holly invece chiamava a casa: "scolta qua, ma a ti te funsiona ben a teevision?! Aaaaahhhh bèèèènn pòòòò, mi go sto ronzio continuo come se ghe fusse e mosche, par altro!! E perché pò no vedo Totti?? E come mai i se suga e man su pal cueo, che no xe gnanca educato?!" È cominciata la Coppa del Mondo, e la nonna è tarata sulla versione CT nazionale, col problema degli infortuni e delle fastidiosissime vuvuzelas, le trombette sudafricane.

DdV 9 - Orgogliosamente

"Poi c'è anche quella roba là...." La mia avventura al primo Gay Pride in vita mia comincia così, con la mia padrona di casa MM che ci annuncia gli eventi della settimana, e snobba un ritaglio di giornale color arcobaleno. "Se volete andare a vedere quella parata di culattoni, assicuratevi di cospargervi di spray insetticida. Perché sarà pieno di malati di HIV, e nessuno l'ha mai provato, ma chi ti dice che l'HIV non si trasmetta con le punture di zanzara?" Dopo un notevole sforzo per non ridere, non piangere, non inorridire... e in ciascuno di questi casi, non sputare il boccone o non soffocarmi, ho annuito con partecipazione e sono salita in camera mia. Ad offrirmi come volontaria per il Toronto Pride 2010. Il giorno dopo, ho ricevuto una telefonata che mi ha assegnata alla Parata, come "sign carrier", con la cortese richiesta di vestirmi di bianco.

DdV 8 - Cascando

Ero molto curiosa di viaggiare finalmente in un famosissimo pullmann Greyhound. Salvo scoprire che è nient'altro che un pullmann, solo che c'è disegnato un segugio grigio. La stazione dei pullmann è triste e grigia come nei film, il bigliettaio ci mette il suo tempo per capire la pronuncia italiana... sì perché "niagara" in italiano non suona come "naiègra" in inglese, no, meglio tenerlo a mente. La gente è già in fila alla corsia, e le allegre coppie con infante al seguito stanno già saltando la fila, al solito. Ci si divide: i bravi clienti diretti a NYC salgono su un pullmann enorme, noi si sale su un pullmann più piccolo perché siamo solo i poretti diretti alle cascate.

DdV 7 - Sightseeing Toronto

La fase iniziale di un trasferimento all'estero, come mi insegna Hofstede, è la fase del turista. Bene, quindi vediamo di godercela in pieno. Ho già assaporato gli odori e la confusione di Chinatown, alla quale si accede attraverso una porta col dragone; ho già visto l'aquapark in lontananza, all'Ontario Place, e la casa medievale nei pressi del porto, dedicata ai tornei in costume e alle cene medievali. Ma adesso è tempo di fare sul serio, e acquistare il Toronto Pass: ho nove giorni di tempo per visitare le cinque attrazioni principali della città, pronti partenza via.

DdV 6 - Primi giorni in Canada (no Mac, no party)

Parto da Philadelphia guardando incuriosita il lustrascarpe in aeroporto, e spiando che diavolo starà facendo di tanto importante il mio vicino, incollato al blackberry. L'arrivo a Toronto è molto rincuorante: in meno di mezz'ora sono già in taxi, col visto in tasca... altro che States! Noto subito il verde che abbonda, le strade residenziali che sfociano nelle grandi arterie commerciali, e so che difficilmente sbaglierò nel rientrare a casa: il cartello "REMOVE YOUR SHOES" è visibile da chilometri di distanza. Apprendo subito le numerose regole di MM, la mia padrona di casa: via le scarpe, chiudere a chiave la porta quando si esce, cena alle 18.30 con cibi di tutti i colori, niente asciugamani sul letto e niente elettricità prima delle 9 della sera! Gulp. L'accompagno a fare la spesa, e noto l'ironia canadese -un po' british- sui finestrini del bus: "Spostarsi verso il retro dell'autobus, grazie" recita il primo, e il secondo "beh, magari UN PO' PIU' indietro, GRAZIE!". Scopro inoltre che non esistono i pulsanti, per prenotare la fermata: bisogna tirare un cordino di gomma che sembra un filo elettrico, e corre lungo tutte le pareti del bus. In autobus e al supermercato non sento parlare inglese, tranne che da MM: sento russo, francese, italiano (dialetti più che altro), portoghese, spagnolo... salvo poi passare all'inglese per rivolgersi agli sconosciuti. E' un primo assaggio del melting pot che il Canada è riuscito a creare nel tempo.
Al terzo giorno in Canada, nemmeno il tempo di abituarmi alla quantità di aglio e paprika nelle pietanze di MM, il mio Mac si arrende al cambio di voltaggio e muore. Lo porto al Maccospedale, ovvero l'Apple Store, dove i commessi comunicano tra loro attraverso i Macbook, e la cassa si apre con un Iphone. Mackie viene ricoverato, e io mi ritrovo completamente spiazzata. Non potendo comunicare attraverso il computer, mi piomba addosso tutto lo shock che non ho vissuto finora, il distacco da casa e dai miei cari. Allo stesso tempo però, mi sento in sintonia con Toronto, sento ancora che niente può andare storto e che tutto accade per una ragione. Comincio il mio pellegrinaggio alla ricerca di un lavoro, dalla Dante Alighieri (spiacenti, ma sa...), alla gelateria Novecento in Corso Italia, agli annunci online per lezioni d'italiano, a chi più ne ha più ne metta. Le istituzioni italiane sono a dir poco disinteressate al destino dei connazionali in vacanza-lavoro, e sì che invece dovrebbero essere loro a promuoverci! Mah. La sera mi consolo con una passeggiata sul lungolago. In autobus c'è un gruppo di ragazzacci, che qui vuol dire "ragazzi che mettono i piedi sopra i sedili dell'autobus" salvo poi spostarsi, scusandosi, quando accenno a volermi sedere... proprio dei teppisti!!! Tra l'altro, sono in sei e di sei razze diverse: asiatici, est-europei, nordafricani, sudamericani, afroamericani... di nuovo, il melting pot made in Canada. Lo spettacolo del lago di sera è incredibile: l'aria fresca, la temperatura ideale, i parchi e la CN Tower sullo sfondo. Oltre a me ci sono ragazze che fanno jogging, persone che passeggiano, il tutto ai margini di quelle che non sono strade, ma autostrade coi marciapiedi ai lati.
Ho sempre amato le città sul lago, e Toronto non fa eccezione. Qui ci si sente al sicuro, non ci si può perdere (perché se non altro, la CN Tower fa da punto di riferimento) e la rete di trasporti è talmente efficiente, puntuale e sicura da sbalordirsi a sentire chi si lamenta -come MM, per dirne una- di dover aspettare 5 minuti per un autobus! Mi appresto a fare amicizia con questa città, e mi preparo ad esplorarla in lungo e in largo.

DdV 5 - Us(A)cendo

Come di consueto, terminata una tappa del viaggio mi fermo un attimo, prendo in mano il mio quaderno delle "cose da fare e vedere prima di morire" e cancello le voci adeguate: New York+Stephen King; New Jersey+Perth Amboy; BJ al Giants Stadium. Solo tre?! Ne restano un sacco. Impressioni sugli States? Contraddittorie. Ho visto la terra degli stereotipi della tv: i taxi gialli, i MacDonald's, la tv splatter e gossip, i grattacieli, l'aria condizionata fortissima, le maxi porzioni di tutto, le casette col patio e la bandiera americana in giardino. Ho trovato delle peculiarità, per non dire delle stranezze: gente arrestata per strada perché beveva alcol in pubblico, divieto di fumo a 20 piedi dall'entrata degli edifici, i predicatori ad ogni angolo di strada e nelle metropolitane.
Ho trovato una popolazione variegata, e nell'insieme cordiale ed aperta, che mi ha insignito della cittadinanza ad honorem del Garden State (il New Jersey), per voce di un suo tassista, che mi ha ceduto il passo praticamente ovunque, in metro come in aereo.
Ho trovato però una nazione anche molto spaventata, in cui la perseveranza nell'assimilazione ormai fa acqua da tutte le parti. La convinzione che lo straniero debba essere grato dell'accoglienza e perciò rinnegare le sue origini e diventare profondamente americano, non sta più né in cielo né in terra. E di questo gli americani si sono resi conto, anche se resiste lo stupore di chi non si spiega l'odio e gli attentati, perpetrati da abitanti di questo paese, ma le cui origini destano oggi paura e sospetto. E saltano fuori tentativi maldestri di riconciliazione tra le culture, come il progetto ormai definitivo di una moschea nei pressi di Ground Zero: le polemiche infuriano, e non c'è modo di sapere se la politica sa che direzione prendere o si limita a dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte, un monumento agli americani e un luogo di culto ai musulmani -che sempre americani sono. E' tempo di passare il confine, per scoprire se la cultura canadese differisce dai vicini.
Ma all in all, God bless America... qualunque sia il God.

DdV 4 - Come un bruco

Come da copione, anche a New York fa un caldo bestia. Certo che anch'io, son peggio dei giapponesi: New York in due giorni scarsi, come si fa?! Il primo impatto con i treni newyorkesi mi fa entrare già in un'atmosfera anni '60: interni in legno, controllore col cappellino con la visiera, sedili con lo schienale spostabile (per sedersi nel verso di marcia!). Come esco dalla Penn Station, mi sembra di essere entrata nel bel mezzo di un mucchio di stereotipi: grattacieli, traffico impazzito ma solo perché ci sono migliaia di taxi gialli, alle mie spalle il Madison Square Garden di tanti concerti famosi (Bon Jovi, per dirne uno...). Procedo nel caldo atroce, vedo Macy's, l'Empire State Building del quale ignoro volentieri l'ora e mezza di coda per salire in cima, la Grand Central Station che fa concorrenza a certi scenari da Harry Potter. Contrariamente a quanto si dice, la metropolitana non è complicata -anche se, in effetti, New York la si può girare tranquillamente a piedi-, ed accettano perfino il bancomat italiano, per i biglietti... wonderful! Il mio giro prevede un'ampia deviazione per andare a vedere un grattacielo ignoto ai più, ma che per chi ha letto La Torre Nera di Stephen King, è immancabile: al numero 2 di Hammarskjold Plaza sorge la Torre Nera del nostro mondo, aye Roland.
Superata questa pietra miliare, mi rituffo in un altro stereotipo: hotdog dal chiosco per strada, e che strada! La quinta, o meglio la celeberrima 5th avenue. Un'attività da prendere in considerazione, quella del chioschetto a Manhattan, un po' come il bar sulla spiaggia tropicale. Il mio giro prosegue al Rockfeller Centre -quello della pista di pattinaggio- e al vicino Starbucks, per rifocillarmi nella calura della City. Arrivo così alla ben nota Times Square, e mi chiedo se sono gli americani a copiare Piccadilly Circus o viceversa. Dopo un giro dovuto al negozio di giocattoli -dove c'è pure la ruota panoramica... e anche qua, chi ha copiato chi? Hamleys o ToysRus?- mi rilasso nella zona ristoro -praticamente, una serie di tavoli e sedie in mezzo a Times Square. Vicino a me si siede un'anziana giapponese che lavora a maglia, poi si avvicina un ragazzo per appoggiare il pacchetto di MacDonald's più unto che abbia mai visto e mangiare al volo il suo BigMac. Concludo il primo giorno a Central Park, giusto uno sguardo e poi via, a meritato riposo. Tutto sommato, ho sfatato molti dei miei pregiudizi sulla City: si respira una bella aria, di vita, di entusiasmo, non -come credevo- di frenesia e fretta.
Il secondo giorno lo dedico alla Lower Manhattan, ed ingenuamente compro il biglietto per la statua della Libertà: la fila per salire sul traghetto comincia praticamente a Brooklyn, ma è allietata dalle esibizioni di svariati artisti di strada. Per fortuna il caldo è mitigato dall'aria, ciò nonostante le mie spalle si colorano di una varietà amaranto-aragosta per niente tranquillizzante. I controlli prima di imbarcarsi sono come quelli dell'aeroporto, col metal detector... e naturalmente, chi si ferma e lo fa suonare quattro volte?! Italiani. Dal traghetto ammiro lo skyline di New York, e già da qui s'intuisce la voragine lasciata dalle Torri Gemelle. Arriviamo a Liberty Island, dove scopro che la statua non è così piccola come la descrivono, anzi! Sarà che il piedistallo è altissimo, ma l'insieme è imponente a dir poco. Proseguo per Ellis Island, dove mi abbiocco e mi risveglio a tratti mentre la voce di Gene Hackman racconta della superba magnanimità di questo paese che ha accolto milioni di poveri sporchi malati puzzolenti immigrati, viva l'America! E non si può descrivere lo sguardo schifato con cui la guida pronuncia "Italians" alla domanda su quale popolazione avesse portato il maggior numero d'immigrati a New York.
Al ritorno, scoppia un simpatico acquazzone estivo che mi fa rimpiangere l'ombrello, al sicuro dentro la valigia. Trovato riparo da Starbucks, mi dirigo poi a Wall Street, che non è altro che una strada molto affollata in fin dei conti, e verso Ground Zero. Ho fortemente voluto e molto temuto l'impatto con questo luogo, perché il mio 11 settembre è stata la data spartiacque tra l'ingenuità e l'innocenza dei miei 17 anni e il brusco risveglio a scoprire che no, l'America non era perfetta, il sogno americano era una bufala, c'era chi odiava l'America e chi l'America odiava a sua volta. E' stato il momento in cui tutti abbiamo perso la tranquillità, lo sguardo neutrale su chiunque avesse una barba e un turbante, la serenità di uscire soli di notte, il relax di viaggiare senza chiedersi cosa avessero tutti negli zaini. Questi giorni negli USA, curiosamente, mi hanno restituito un po' di quella leggerezza: quella tranquillità del "comunque vada sarà un successo", quell'apertura mentale che mi ha fatto sedere su un guard-rail nel mezzo del nulla, in piena notte, a chiaccherare con sconosciuti, senza paura. Ground Zero toglie il respiro. E' proprio così, guardi tutt'intorno poi improvvisamente ti viene da stare in apnea. Un vuoto che non si spiega, perché se vado a vedere le immagini di 9 anni fa, e le confronto con ciò che vedo ora, non mi spiego come siano rimasti in piedi tutti gli altri edifici. Le teorie complottiste acquistano sempre maggiore fascino. Ci sono due gru, non si sa a costruire cosa, non è chiaro e lo si scoprirà solo il giorno del decimo anniversario. Ma dalle gru penzolano due bandiere americane listate a lutto, ad eterna memoria... come se non bastasse il vuoto, a toglierti il fiato.

DdV 3 - New Jersey (finding Jon)

La mia avventura nel New Jersey comincia nel segno del caldo atroce, con un viaggio su e giù per tre treni e un'attesa infinita di un taxi che si degni di passare per la stazione -chi me l'ha fatto fare?? ah sì, Jon Bon Jovi. Finalmente arriva il taxi, così posso fare un po' di conversazione: cosa fai qua? Dall'Italia per un concerto?! E che lavoro fai? A chi è che insegni italiano, in Italia? Non lo sanno già? Comunque il tuo inglese è ottimo! Mi raccomando vieni a vedere anche a me, un giorno o l'altro suonerò anch'io negli stadi! Sìsì certo come no. Finalmente arrivo al mio residence, suite con vista stadio e autostrada tutt'intorno, non posso muovermi se non in taxi. Ottimo. Quindi mi chiudo in camera, sperimento il lavaggio a mano delle maglie -esperimento perfettamente riuscito!- e mi preparo un panino. I panini sono già tagliati, fantastico. Poi mi cucino una pasta per cena, e scopro che qui non ci sono i fornelli normali, bensì delle piastre che diventano rosso fuoco quando si scaldano... prima di capire che non dovevo aspettare la fiamma, c'ho messo un po'.

La prima notte trascorre al freddo e al gelo, thanks to il termostato impazzito. Il giorno pre-concerto è dedicato alla visita di Perth Amboy, città natale di Jon, dove do per scontato che lo incontrerò, perché sicuramente sarà lì a riposarsi. E infatti... faccio colazione in stazione con una tipica Donut locale e un altrettanto tipico caffè-sbobba, dopodiché salgo in treno con un giornale da leggere. Perth Amboy è carinissima, sembra di essere in Wisteria Lane: casette con l'orto, la scaletta, il patio, la bandiera americana in giardino; la spiaggia sul.... canale, l'aria che sa di salso. Nell'ipod ho le canzoni dei Bon Jovi, che in qualche modo acquistano ancora più senso, in questo contesto. Dopo aver percorso tutto il lungocanale, mi rassegno a non incontrare Jon a passeggio col cane e mi siedo in un ristorante locale a mangiare un boccone. Che si concretizza, per appena $10, in acqua ghiacciata, insalata con salsa di gorgonzola, tortine di granchio con salsa d'aragosta, patate al forno, dessert che non prendo, preferendo un espresso... condito alla cannella, ahimé. Nel bel mezzo della degustazione delle tortine, succede l'imprevedibile: dalla strada accanto al ristorante arriva una berlina nera, mette la freccia e svolta... alla guida, Jon che parlava all'auricolare, bello come non mai. Alla fine, avevo ragione. Non riesco più a mangiare, naturalmente, perciò il cameriere mi chiede se deve mettermi via gli avanzi da portare a casa... nono per carità. Torno indietro, non perdo l'occasione di scendere nella spiaggia e mettere i piedi nell'acqua -gelata, pur sempre oceano è- e torno alla stazione attraversando i quartieri più degradati della città. Pronta per il concerto.

La prima cosa che salta agli occhi è che i taxi non hanno il tassametro, perché la tassa è trattabile. O meglio, è fissa. Che mi porti alla stazione o dall'altra parte dell'(auto)strada in 5 minuti scarsi, i soldi sono sempre gli stessi. Il caldo è soffocante, chi me l'ha fatto fare quella volta di comprarla a maniche lunghe, la maglia dei Bon Jovi?? Lo stadio è imponente già da fuori, e per chi segue da un po' questo gruppo, è un vero sogno: il vecchio Giants Stadium, lì accanto e quasi demolito, è un vero cimelio della storia dei BJ. Arrivo durante le ultime prove, perciò da fuori sento già un'anteprima di alcune delle canzoni che suoneranno. Finalmente si aprono i cancelli, arrivo al mio posto e ammiro i 3 anelli di questa "home of the Giants and the Jets!" che sarà anche la sede del Super Bowl. Calcolo circa 100 mila posti, di cui alcuni davvero TANTO in alto. Come al solito in USA, anche in campo i posti sono a sedere, numerati, che è positivo per evitare resse e malori e dare la possibilità a chi vuole di sedersi. I sedili hanno i portabibite, e sono terribilmente scivolosi. Accanto a me si siedono una famiglia di alcolizzati con bottiglie di vino ovunque e due tipiche americane ultra obese. Contrariamente a quanto mi era stato detto, gli americani sono tutt'altro che freddi ai concerti, anzi. Dopo l'apertura degli OneRepublic (quelli di "Apologize") comincia il concerto, con un jingle "this is our house" e poi due delle mie canzoni preferite "Who says you can't go home" e "We weren't born to follow". Tre ore e mezza di concerto, e quando Jon ringrazia noi della nostra fedeltà, perché lui non sarebbe dov'è, io penso che devo ringraziare lui, perché non sarei dove sono se non fosse stato per quei biglietti che avevo da mesi. Adesso so che comincia una nuova fase, senza rimpianti e senza "come vorrei essere stata lì", perché adesso ci sono e vivo ogni minuto al meglio. Per gli appassionati dei BJ, ecco la scaletta:
All'uscita dallo stadio, provo a chiamare per un taxi ma a quest'ora non ne mandano. Quindi mi rassegno a sedermi sul guard-rail insieme ad altri sconsolati e ad aspettare. Una guardia cerca di bloccare le macchine in arrivo con una luce fosforescente, per avvisarli di fare inversione perché è tutto bloccato e ci metterebbero più di un'ora a proseguire, ma nessuno lo caga: "I hate my fuckin' job!" Finalmente arriva il taxi, dopo quasi un'ora, e divido la strada con padre e figlio di Indianapolis. E' ora di andare a dormire, e di cominciare una nuova fase del mio viaggio.

DdV 2 - Prime impressioni

La prima pagina del mio taccuino dice “my dream is....”: troppi pochi puntini, la lascio in bianco. Parto da casa convincendo Ma' che nonostante la valigia sia mezza vuota, non porterò via Klappar l'ippopotamo. All'aeroporto saluto Pa' e Gogo e mi dirigo con non-chalance al check-in. Primo controllo passaporto, superato il quale mi viene fatto presente che il beauty vale come valigia, perciò paghi la tassa grazieeee. La grande novità del body scanner c'è, a Venezia, ehhh sì. Bello. Chiuso. Inutilizzato. Che bella spesa. L'aereo è puntuale, ci servono il pranzo -cheese maccaroni, meglio di quanto si possa pensare- e constato che la gente esagera. Quando dicono che c'è tanto spazio per le gambe, o che non ce n'è per niente -lo spazio è il solito-, che ti danno un sacco di cose -un cuscino e una vestaglia, che credevo fosse una coperta-, che devi camminare altrimenti ti si blocca la circolazione e fai una paralisi -mi sono alzata una volta e non ho avuto nessuna controindicazione. Mi godo due film, di quelli che di solito si vedono sotto Natale, e constato anche che un volo transcontinentale non è più silenzioso, anzi. Quando il pilota annuncia che atterreremo con un'ora di anticipo, il mio vicino si entusiasma e si lancia a raccontarmi i suoi quindici giorni in giro per l'Italia. Una volta scesa, e imboccati i mille labirinti che portano all'uscita, mi metto in fila tra i “visitors”, e mi viene detto che devo compilare il modulo verde. Che è uguale all'ESTA, che ho già fatto, e che mi chiede di nuovo se sono parente di Bin Laden. NO, CHE CAZZO. Dopodiché mi metto in fila per i controlli, cosa che ti fa sentire molto ben accetta in questo paese. Un cartello mostra la procedura -impronte digitali della mano destra, poi della sinistra, poi foto digitale- e conclude “welcome to the USA”... ammazza, e se non ero welcome?! Vanificata l'ora di anticipo, spiego alla poliziotta che sono una turista... “e stai a Bensalem?! A far cosa?!” Sono ospite di un'amica, SANTO DIO!!! Recupero le valigie, ormai scaraventate via dal nastro trasportatore, ed esco. Finché non sono in strada non ci credo, che non devo fare altri controlli.

Dopo una rapida chiamata a casa, mi trascino al primo taxi libero, e fornisco l'indirizzo di Mel. Il dinamico autista, per programmare il navigatore, finisce sopra il marciapiede, ma è tutto sotto controllo. Poi mi fa fare la conoscenza di una tradizione locale: l'aria condizionata sparata a 2000. Le mie cervicali ringraziano. Lungo la strada vedo i grattacieli che caratterizzano lo skyline di Philadelphia, e il ponte: queste sono le prime immagini che registro. Alla fine, il simpatico tassista non trova la strada giusta "I cant see numbers, I cant see!" e mi risolvo a chiamare Mel per farmi venire a prendere. Il clima è quello che a Venezia definiamo "sòfego", una cappa di caldo umido che all'equatore si sta meglio. Dopo aver depositato le valigie alla mercé dei gatti di Mel, facciamo un salto al supermercato locale -in macchina, ovviamente. Le auto qua sono enormi, d'altra parte pure le strade sono sterminate. Al supermercato c'è la mia amica Aria Condizionata ovviamente, nel reparto frutta e verdura invece si scatena la tempesta: si sente tuonare, poi parte una pioggia leggera per innaffiare i prodotti esposti -coreografie made in USA. I prodotti -frutta, verdura, pane, affettati- durano anche un mese, in frigo, aperti. Gulp. Infatti gli affettati si comprano non all'etto, ma al pound... mezzo chilo, che tanto dura! Per cena per fortuna cucina Mel, e si mangia la pizza di carne, poi si va a dormire... o a giocare con Ninì la gatta, nel mio caso, grazie al jet-lag.

Il giorno dopo sono a dir poco rintronata dalla notte in bianco, quindi mi dedico ad un po' di Internet. Quando il Mac si scarica, scopro con disappunto che il costosissimo trasformatore vendutomi in Italia come indispensabile non serve, bastano gli adattatori. Hmmmmmmm. Nel pomeriggio facciamo un giro al Mall, il centro commerciale, con Mel e la sempre presente Aria Condizionata. Al Mall si trovano tantissime marche scontate, anche in periodi a caso durante l'anno: non è come da noi, con i periodi fissi di saldi. Infatti il negozio Guess spara le borse a 25 dollari, e il negozio Levi's ti tira dietro i jeans a 30. Di contro, maglie improbabili di D&G e Missoni arrivano a 500-600 dollari, ma partivano da 2-3 mila! Tra i corridoi del mall si trova di tutto: distributori di caramelle, massaggiatori, estetiste che depilano le sopracciglia e il labbro CON UN FILO DA CUCITO, stand che per venderti i trucchi e farti vedere come ti stanno ti truccano gratis. I manichini di molti negozi hanno la sesta di reggiseno... modelli di bellezza locali; al negozio Nike vendono il portamonete da agganciare alle scarpe da ginnastica; il negozio Lindt sta chiudendo, perciò svende 4 pounds di Lindor (2 chili) a 7 dollari... troppo anche per me, le supersize locali stanno mettendo a dura prova perfino la mia innegabile voracità. Tutti i commessi sono super sorridenti, e anche se è una posa mi piace da morire il saluto "Hi, how're you doing?" che sembra gliene freghi qualcosa. Dopo un salto da Victoria's Secret -che esiste davvero, non volevo crederci!- torniamo verso casa, e stanotte finalmente si dorme!

Il terzo giorno comincia benissimo, con la skyphonata a casa, e prosegue meglio, con la gita a Philadelphia. Il caldo è torrido, l'escursione termica tra l'interno e l'esterno penso sfiori i 20 gradi. I biglietti del treno vengono obliterati dal controllore, sistemati sul tuo posto a sedere, e ritirati quando poi dovresti scendere. La prima tappa a Philly è la Liberty Bell, la campana simbolo dell'indipendenza americana. Alla quale è stato dedicato un intero museo con souvenir risalenti perfino al 1960... cimeli!!! I rangers non ci permettono di sederci sul preziosissimo muretto esterno -sarà stato costruito nel 1980, insomma!- e finalmente entriamo alla visita guidata alla Congress Hall, dove sono conservati altri preziosissimi cimeli... del 1700... la guida si entusiasma a parlare della migliore costituzione sulla faccia della Terra, difesa in quelle stanze... sì, siamo al centro del mondo. Dopo un gustoso pranzo messicano, andiamo nella zona dei grattacieli, che fino a non molto tempo fa non potevano esistere perché il limite d'altezza era il cappello della statua di Penn, il fondatore della Pennsylvania. Il caldo è torrido, ma c'è di buono che i grattacieli fanno ombra. Ci rifugiamo dall'amica Aria, in uno dei più recenti grattacieli, e dopo aver bevuto un frullato ci dirigiamo alla stazione, direttamente collegata al grattacielo, sottoterra. Il nostro treno è cancellato, perciò ci schiacciamo come sardine in quello successivo e poi andiamo a fare un po' di spesa: domani è tempo di partire, il New Jersey mi aspetta.

Diario di Viaggio 1 - La vigilia (quello che lascio)

Mancano poche ore all'aereo che mi porterà di là dell'oceano, pochi minuti alla puntata della mia fiction preferita, che vedrò stasera per l'ultima volta. E' stato un periodo di ultimi saluti e di ultime volte, qualche volta consapevoli molto più spesso inconsapevoli. Ovviamente, come ogni volta prima di voltare la pagina del mio scrap-book mentale, faccio un po' un bilancio di ciò che lascio e di ciò che mi porto dietro.
Lascio la mia città e i suoi ricordi. Ricordi belli e ricordi brutti, di una città vicina unica al mondo, e per questo così difficile da accettare, perché quando sei piccola pensi che tutti i bambini del mondo vivano vicino a una città di palafitte. Poi vedi le altre città e scopri che sono molto più simili a dove vivi tu, lì oltre il ponte, in terraferma. E allora adori Venezia con tutti i suoi difetti e odi Mestre con tutto il cuore. Oggi però posso dire di aver fatto pace. Pace col tram, coi ratti, con il Marzenego che puzza, con le ZTL assurde e la puzza di smog. Ma pace anche con l'odore del tramonto, dell'erba bagnata e del galletto... con le albe a S.Giuliano, con i parchi, le riviere. Porto via un po' di foto digitali, e tante, tantissime mentali archiviate dietro le mie palpebre: quando chiudo gli occhi, partono le slides.
Lascio una casa dove ho riso, pianto, amato, studiato, litigato. Ma della quale saluto sempre i muri, ogni volta che parto.
Lascio i miei tantissimi peluches. Swettie l'orso bianco seduto, Klappar l'ippopotamo, Quack la papera, Placidia la gallina. Da piccola davo la buonanotte a tutti i miei "1792" peluches (non che li avessi mai contati, era una stima per difetto). Da simil-adulta ho sempre dato la buonanotte a due di loro, Musetto-Nero-Clergygirl, la foca monaca, e Musetto-Grigio-Rabbie, la lepre. Perché erano i due di Hamleys', lì sul comodino a ricordarmi sempre che fuori da tutto ciò che mi stava stretto, dal lavoro che non sopportavo, c'erano altre sfide, altre opportunità, altri mondi possibili.
Lascio le sfide perse e quelle vinte, lascio le soddisfazioni e le delusioni, e mi porto dietro quello che mi hanno insegnato. Lascio le persone che ne valevano la pena, e quelle con cui ho perso tempo. Mi porto dietro la consapevolezza di aver dato quello che potevo, e qualcuno non saprà mai quello che si è perso.
Lascio le persone che mi amano, ma porterò con me i sorrisi, gli abbracci, l'amore che mi daranno sempre ovunque saremo, la forza che mi dà sapere di contare così tanto quanto contano loro per me.
Mi porto la voglia di raccontare, di vivere, di osservare, di sentire la vita che mi scorre nelle vene. E anche la paura, perché come dice Gogo "fa parte del gioco, è giusto che ti caghi addosso."
So che tornerò diversa, spero molto migliore, spero di portarmi via, al mio ritorno almeno la metà in più dei bagagli mentali che sto impacchettando ora.
La valigia è pronta, è tempo di chiudere il pc. E di accendere un'ultima volta la tv italiana, che almeno quella non mi mancherà.

Breathtaking


London – Sevenoaks, 5-8/12/2009
Uno dice: come faccio a riconoscere gli italiani in aeroporto? Facile. A parte che urlano, dico. Hanno le Roncato intonse, mai usate, sfoggiate con orgoglio per il primo viaggio oltre confine. E i russi? Facilissimo. Segui il segnale audio dei metal detector. E le facce stupite di chi scopre che NO, non è propriamente consentito, imbarcare una forma di Parmigiano Reggiano intera. E gli americani? Beh, sono quelli impassibili e grati allo steward, quando gli si dice che avranno una stanza d'albergo per la notte, visto che il volo per New York partirà domani alle 6 del mattino, invece che l'altroieri alle 15. E le italo-inglesi? Sono quelle che in una telefonata passano con non-chalance dall'italiano al british english curandosi di essere ascoltate da almeno altri 20 passeggeri estasiati dalle loro strabilianti capacità di code-switching. E io? Io sono quella che, dopo aver ingurgitato una brioche di dimensioni improponibili, cerca di capire quante tasche nascoste ha questo nuovo giubbotto, contorcendosi con molta chalance sul suo posto di 2 cm quadrati. E i capitani inglesi? Sono quelli che col loro british english ti avvisano, come fosse la cosa più naturale del mondo, che a Gatwick si sono perse le scale per farci scendere, quindi restiamo chiusi in aereo. E con altrettanta naturalezza annunciano poi “Ladies and Gentlemen, alleluja! We've got the stairs!”
All'arrivo vengo accolta dall'italianissima Lena e dal suo britishissimo marito Jay, che mi portano a mangiare all'indiano, dove c'abbuffiamo -strano!!- e poi ci puliamo le mani con le salviette calde... quanto sono inglesi. E si parla dell'aberrante piatto tipico inglese, il fish and chips, ma come mi dice Jay, “l'hanno inventato i vittoriani.. sai, noi diamo la colpa di tutto ai vittoriani!” A casa ci attende Tosca, la gatta impertinente che più che attenderci è fuori in giardino, a “cacciare le rane”, come m'informa Lena. La casa è tipica inglese, col suo caminetto, la moquette, l'orticello... e la scala ripida e buia che sembra presa pari pari da Psycho. I gusti televisivi sono però molto italiani: si guarda X Factor, manco a dirsi, e si litiga sui cantanti in gara.
Il giorno successivo comincia con una corroborante camminata nel parco del Kent di Sevenoaks, ricoperto di fango. Una dolce coppietta ride, scivolando su e giù: Lena è categorica “Daje du mesi, e vedi te... lui je dirà “ma cche sei defisciente, nun riesci manco a sta' in piedi??!”” Il castello sovrastante il parco, scopro, è abitato. T'immagini, pensiamo con Lena? Vieni a prendere il the da me? Sì, dove abiti? Presente il castello in cima al parco?!
Tornate a casa, lavoriamo sulla tesi, con Lena che chiede aiuto informatico al paziente marito: “JJJJJAAAAAAYYYYYY!!!!!!” “Yes, Leeenaaa?!” E via così. Viva l'intercultura. Jay è tutto un SORRY e PLEASE, quanto è british. E quanto è british la carne con marmellata di mirtilli, ma devo dire che anche l'intercultura alimentare è da tenere in buona considerazione. Finalmente provo anche le famose mince pies, le tortine di Natale... sì, viva l'intercultura alimentare!! Ma continuo a rifiutare l'intercultura televisiva: una serata di programmi crime-splatter inglesi e sfido chiunque a non spegnere tutto e dormire per una settimana.
Il giorno successivo è il momento di tornare a Londra. È la settima volta, ma ogni volta è una sorpresa. Mi manca il fiato quando vedo spuntare il London Eye prima di arrivare alla Waterloo Station, mi manca il fiato quando respiro di nuovo gli odori di Londra, quando mi butto nella ressa di Hamleys' sotto le feste... mi manca il fiato quando poi, all'alba, devo salutare Tosca che mi ha fatto compagnia prima della partenza.
Ma cosa significhi Londra non si può riassumere in un concetto, in un leit-motif, in poche parole. Perciò mi limiterò ad auto-citarmi, riproponendo le parole che usai nel lontano 2001, dopo il primo viaggio nella capitale inglese, a 17 anni.

“Dimmi, può esistere il "mal d'Inghilterra" Sì perché ho sempre sentito parlare del "mal d'Africa", ma quello che provo ci assomiglia da morire! E' stata una vacanza-ma prima di tutto un'esperienza di vita- davvero stupenda ed entusiasmante. Da dove comincio? Mah, non so neanch'io.. comincio dagli odori, dai profumi che si respirano in città.. e già qui potrei fermarmi, perché tutto si riassume nell'emozione che quei profumi mi suscitano. Non ho girato per musei, uno solo l'ho visto in parte e mi è bastato, perché avere davanti, gratuitamente e fotografabile, un frontone quasi completo del Partenone e riuscire a non piangere è già un'impresa di per sé. Solo statue, dicono alcuni. Le vibrazioni le sentiamo in pochi. Sono stata sul Tower Bridge, dopo averlo costruito in miniatura in un puzzle tridimensionale, ed era tale e quale, coi suoi colori, i suoi azzurri e la sua forma tutta strana. Sono stata anche a Buckingham Palace, ma lì c'è aria rarefatta di vita interrotta, freddezza reale che non c'entra già quasi niente con quello che c'è fuori. I sorrisi della gente, la vita frenetica, la VITA, in ogni caso. Tra i suonatori di Leicester Square, i parchi immensi, i ristoranti di Chinatown, i sorrisi di chi ti incrocia ma anche la sofferenza dei senzatetto ho sentito solo due cose sopra tutte le altre: vita e rispetto. Non sarai mai troppo strano a Londra, stai sicuro che chi cammina davanti a te per la strada è mille volte più strano di te, per questo sarai accettato comunque. E Londra vive, che tu ci sia o no lei è lì, e questa è una sfida per noi a viverci dentro perché qualcuno se ne accorga. E allora via, una foto a Chelsea perché c'è stato Jon Bon Jovi, una foto al Centre Point e una al London Eye (per la precisione, quello lo becchi ogni volta che fai una foto, da quanto grande è) e torni a casa bagnato fradicio ma felice di esserlo perché lì piove sempre ma ti devi abituare a non accorgertene.”

La Strana Amata

Lubiana, 21-22/11/2009
Quando si nomina l’ex Iugoslavia, si parla di una nazione strana. Neanche pensare di dire a Ma’ che andrò in Slovenia in pullman. “I te rapisse e i te porta in Polonia a far a badante!!”. Mamma, casomai è il contrario, sono loro che vengono qua... s’inserisce la nonna: “Ecciò, che quando e ga messo na firma no e se move più da qua quee, furbe ciò!!! Bea Lubiana, bea!!” Ci sei stata?! “Ahhhh bèèèèn pòòòò... stada-proprio-esattamente-no.... disemo che dovevimo ndar, ma se gavemo fermà a Trieste. Bea Lubiana ciò, proprio bea! Sta tenta sa, no sta darghe confidensa a quei che dopo i magna ajo! Ti varda drito e no sta parlar co nisuni!” Dovrei davvero aprire un’agenzia di viaggi, con la nonna Holly alle public relations.
Arrivo in stazione in anticipo, mi accoglie un tipico parcheggiatore slavo che si prende cura del mio zaino e mi invita a ripresentarmi dopo un’ora. Bene, posso prendere un caffè: faccio lo scontrino, vado al bancone, aspetto il mio turno.
L’avventore davanti a me trova parecchio strana la procedura: “Ué, io veng dalla Campania e shte couse non esiston proprio!” Sì caro, tipo il fatto di fare scontrini?! Una volta accomodata nel mini-pullmann, arriva una coppia –madre slava, padre napoletano, figlioletto di due anni- e sento il papà che li saluta: “Uèè, assetete! Me raccomando, nun ti dimenticà la lingua itallliana, che nun te voj cchiù se parli slavo!” Certo, l’accezione di lingua italiana è vasta, molto vasta. Nel frattempo, i nostri autisti stanno litigando in sloveno stretto con gli autisti di un’altra compagnia. C’è di strano che colgo qualche parola... “...catastrofaja...”, beh forse meglio non cogliere nulla. Il viaggio procede bene, a parte i vivaci dialoghi a me incomprensibili –mi sento un po’ estranea, in effetti, straniera a dir poco, e l’effetto è straniante-, e quando passiamo il confine mi si stringe il cuore al pensiero che questi poveri autisti, che attraversano su e giù il confine, riceveranno minimominimo 8 messaggi Vodafone al giorno. Poverini. A me rompono già i maroni i due che ricevo, non richiesti. Ci fermiamo in una stazione di servizio, dove obbedisco al perentorio “STAY HERE!!!” dell’autista. Gli altri passeggeri scendono, fumano, chiaccherano... fino all’arrivo di un’innocua camionetta della polizia.
A quel punto, risalgono tutti in fretta e furia, ripartono, blaterando “..drogaja...polizei...”...ecco, è sempre meglio non cogliere nulla. Arrivo, strano a dirsi, sana e salva, e finalmente abbraccio Candice, che si offre subito come guida della città. Per cominciare bene, c'arrampichiamo su su verso il castello, dal quale si gode di una splendida vista sulla città;
per riprenderci dallo sforzo, ci tocca mangiare una crépe (palachinka, o come cavolo si scrive) tipica del luogo. In effetti, è una crépe strana: non la solita alla Nutella, bensì la Crépe Rocher. Che dentro ha, in effetti, la Nutella. In quantità spropositata. E fuori, è ricoperta di cioccolato fuso e nocciole. In quantità altrettanto spropositata. Dopo una sosta a casa di Candice al decimo piano, arredata secondo i canoni del Feng-Shui (questa strana disciplina praticata dai coinquilini), ci avviamo in centro, dove le case in realtà sono villette con l'orto, come fossero fuori città. Gustiamo una leggerissima cena slovena – o croata, o serba, non si sa di preciso – a base di cevapcici, le polpette-salsicce tipiche, formaggio super burroso, pane e cipolla. A questo punto non ci sembra tanto strano, se i primi ricordi che abbiamo dei nostri viaggi sono quelli legati al cibo: cosa ti manca di più di Londra? A me l'hotdog in mezzo alla strada, a Candice le scorpacciate di humous.
La serata si conclude poco lontano (attenzione a non attraversare col rosso, qui sono così strani che potrebbero perfino multarti e schedarti, se non rispetti il codice della strada...) insieme a Polianna e Leo, due amici di Candice, ad un centro sociale. Che è stato ricavato da una serie di edifici, messi a completa disposizione dei ragazzi per decorarli come meglio credono. Qui si tengono concerti di vari generi nelle diverse strutture, e c'è anche un ostello ricavato da quello che era un carcere. Ha ancora le sbarre alle finestre. E fanno la fila per avere una stanza. Nonostante ogni stanza sia decorata diversamente, come mi informa Candice, e siano veramente uniche nel loro genere, sarà strano ma non mi viene nessuna ma proprio nessuna voglia di entrarci.
Il giorno seguente mi sveglio prestissimo per vedere l'alba. Ma a Lubiana, scopro, non sorge il sole. Sorge la nebbia. E al decimo piano tira pure un vento della Madonna, meglio tornare a dormire. Con calma ci alziamo e facciamo colazione con le tazze CON CUCCHIAINO INTEGRATO NEL MANICO!!!! dopodiché, imperturbabili nel vento che la bora di Trieste ci fa un baffo, passeggiamo al parco di Tivoli, enorme e popolato da due specie di giovani a me sconosciute: i super sportivi e le coppie con figli (a vent'anni, intendo....). Verso il centro, si dispiegano i mercatini dell'usato, dove c'è anche chi vende foto antiche della sua famiglia e di altre famiglie. Il centro storico si apre nella piazza centrale dei tre ponti (il fiume è uno solo, ma gli slavi volevano fare una cosa fatta bene), con al centro la statua del poeta nazionale sloveno che guarda, dall'altro lato della piazza, l'effige della sua amata. Ma credo sia strabico, perché sembra che guardi il balcone a fianco... l'importante è il pensiero. Nella piazza c'è una mostra d'arte, solo che i quadri non sono esposti, bensì appesi a dondolare in alto... strano, ma d'effetto, con lo sfondo del cielo azzurro.
Dopo un pranzo luculliano in quel del minimonolocale di Leo (come dice suo padre, d'altronde, “ti lavori in Iugoslavia?!” e gli stipendi son quel che sono...) con accese discussioni di statistica applicata -tipo “quante probabilità ci sono che in una scatola di preservativi uno si rompa?”-, concludiamo, per star leggeri, con una fettina di torta da Zvezda (Stella), dal modico peso specifico di 100 kg al millimetro quadrato. Però è buonissima, e qui fa freddo quindi servono calorie. È sera, ed è ormai ora di tornare a casa: su Lubiana è di nuovo calata la nebbia fitta, perché si trova in una valle, e sembra di uscire dalla Terra di Mezzo. Sul treno del ritorno, non si vedono le montagne ma si intuiscono guardando le luci della sera lungo il fianco del monte.

E penso che questa Lubiana (“Amata” in sloveno) è una città strana, ma alla quale è anche facile affezionarsi, piccola e diffidente in apparenza, ma se la conosci meglio quasi quasi capisci perché gli sloveni hanno usato l'amore per definire la loro capitale.