“Crema o cioccolato?”
Era la domanda più importante
dell'intera conversazione con la nonna. L'unica domanda che mi
interessava, a dir la verità, nel mio egoismo infantile.
E guai a rispondere “crema” o
“cioccolato”, bisognava usare un codice diverso di volta in
volta, che la mamma non capisse: “primo/secondo” “uno/due”
“chiaro/scuro” erano alcune delle risposte ammesse. Ed era una
scelta che mi impegnava per un mese intero, tanto era il tempo tra un
fine settimana dalla nonna e il successivo.
Si trattava di scegliere il ripieno del
bombolone da mangiare la domenica mattina a colazione, bombolone che
la nonna si faceva mettere da parte appositamente dal pasticcere
sotto casa. Solo più avanti capii perché non potevo mangiarli
entrambi: non per il mio appetito, non certo da fringuellino, ma per
imparare il valore delle scelte e dei sacrifici.
E così aspettavo impaziente la chiamata
del giovedì, quando la nonna mi si faceva passare al telefono e mi
chiedeva il gusto del bombolone.
Poi, trascorsa la telefonata, c'erano i
preparativi per la “vacanza” neanche partissi per un mese in
Thailandia, e finalmente, il sabato mattina, la partenza in autobus
per andare a casa della nonna. Nonna che abitava in una casa in
città, di là dal ponte, su per una scala così ripida e scivolosa
che tutti si meravigliavano non si fosse ancora rotta il femore. Una
casa di quelle da “signori bene”, coi marmi e i mobili antichi e
i quadri alle pareti che trasudavano ricordi di vite passate. Vite
che la nonna mi raccontava a puntate, un weekend al mese,
passeggiando di stanza in stanza o più spesso di calle in campo, su
e giù per i ponti, parlandomi delle donne dell'alta società, dei tè
e degli spritz, descrivendomi nei dettagli la vita di un tempo, coi
suoi personaggi e i suoi negozi come in un film d'epoca. E dava vita
a storie pazzesche -ancor di più perché vere- condite d'amori,
intrighi, fantasmi, matrimoni e funerali, e bombe che cadevano di là
dal ponte, in terraferma. Non andavamo per musei, con la nonna, “per
quelle cose c'è sempre tempo” mi diceva, “ma per le storie delle
persone, per i ricordi raccontati... per quelli no, il tempo fugge
via”.
E mentre attraversavo il ponte
sull'autobus osservavo sempre a bocca aperta la distesa d'acqua ai
lati del ponte, quasi sospeso su due ali di laguna. Fu così,
probabilmente, che mi sorse spontanea quella domanda, a colazione,
tra un morso di bombolone e l'altro:
-Nonna, ma i gabbiani non fanno
colazione?
-Cioè? Cosa intendi?
Con lo sguardo attento di chi prende in
considerazione qualunque domanda, per quanto strana.
-Sì perché quando vengo in autobus la
mattina non vedo mai gabbiani che mangiano, ma poi ce ne sono un
sacco a pranzo in giro che mangiano di tutto. Ma cosa fanno, saltano
la colazione?
Ero considerevolmente preoccupata, si
capisce, e la nonna sorrise:
-Vita mia, i gabbiani non sono mica
scemi. Fanno colazione, certo, ma all'alba. Altrimenti si rovinano
l'appetito per il pranzo.
La nonna sapeva proprio tutto.
-Un giorno vengo all'alba così li vedo,
che ne dici?
-Mi sembra un'ottima idea.
E sorrise di nuovo.
Il mese successivo, forte della memoria
da criceto che mi ha sempre caratterizzata ma da bambina ancor di
più, già avevo rimosso quella conversazione e avevo preso la
solenne decisione: era il mese della crema. Ma quel giorno la nonna
non fece la fatidica domanda, ed io ci rimasi talmente male da voler
quasi rinunciare al weekend di vacanza. La mamma non cedette ai miei
capricci e mi portò dalla nonna come sempre. Dato che ero stata
educata bene, non sollevai il problema e non feci ulteriori capricci
nemmeno quando la nonna volle mettermi a letto insolitamente presto.
Certo mi lamentai un po' di più quando
la nonna mi buttò fisicamente giù dal letto ad ore antelucane,
facendomi vestire e prendere macchina fotografica e borsetta come per
una delle nostre gite. E ancor di più quando dovetti affrontare,
ancora assonnata, la ripida scala scivolosa per uscire, e la lunga
camminata per arrivare in centro al ponte, in piena ala della laguna.
-Guarda lì.
Aveva ragione, la nonna. C'era un'intera
stirpe di gabbiani schierata sulle secche della laguna, a cercare
cibo per la colazione. Non mi lamentai più, e a bocca aperta scattai
foto a non finire. Quando l'euforia iniziale scemò, mi resi conto
che alle nostre spalle le vetture marciavano di buona lena sul ponte,
neanche fosse pieno giorno.
-Ma che fa tutta questa gente qui, a
quest'ora?
-Vivono, vita mia. Lavorano, viaggiano,
tornano da una serata in discoteca... il mondo non si ferma mai. Gira
e gira, con le sue vite e le sue storie e il suo ritmo da trottola
impazzita. Ma tu fa' come noi, prenditi il tuo tempo. Osserva la
natura, che non si fa fretta. Ti pare che ai gabbiani importi delle
macchine?
-No.
-Appunto. Non farti mancare il tempo del
non far nulla. Né quello del pensare, ricordare, raccontare,
meditare, amare. È questo che riempie la vita, molto più di tutto
il resto.
E sorridendo mi accarezzò.
-Pronta? Prendi la macchina fotografica e
puntala verso il cielo, lì.
Mi disse, con un dito che indicava un
punto preciso e gli occhi puntati all'orologio.
Io obbedii, e pochi secondi dopo vidi
quello che dovevo immortalare: uno stormo di rondini, in volo verso
l'alba che colorava il cielo di rosa e di azzurro.
-L'hai fotografato?
-Sìììì, che bello!! Ma nonna, come
facevi a saperlo?
Con lo sguardo di chi ricorda, mi
sorrise.
-È lo stormo delle 6:28. Torna ogni
estate, alla stessa ora vola verso l'alba. Anche tu fa' come loro.
Viaggia, scopri, esplora e poi ritorna. Il tuo posto è qui, vita
mia.
E restai in silenzio, senza chiedere
quale fosse la storia dello stormo delle 6:28. Qualcosa nello sguardo
di quella nonna che non aveva mai preso un aereo mi diceva che quel
viaggio nei ricordi non avrebbe voluto farlo. Fu lei a rompere il
silenzio.
-Allora, andiamo?
-Sì, nonna, andiamo.
-Eh però non mi hai ancora detto una
cosa, vita mia.
-Cosa?
-Crema o cioccolato?
E sorrise.
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