Strana gente, strane
abitudini
Il primo americano che
incontro ha origini italiane, si chiama George e mi porta
dall'aeroporto a casa: mi abbandona con le mie mega valige dietro
casa, e chi s'è visto s'è visto. Poi incontro la segretaria del
dipartimento che è colombiana e che dice due cose alla volta e
l'esatto contrario subito dopo.
Al telegiornale non parlano altro che
delle elezioni, al punto che quando un tornado minaccia la Louisiana,
l'unica preoccupazione dei cronisti è che non si riesca a fare il
convegno di Romney; ma il giornalista da studio vede il bicchiere
mezzo pieno: “Almeno sarete già lì e potrete raccontarci tutto
sul tornado!!”
Il terzo giorno dobbiamo
andare a un'ora da casa per richiedere il Social Security, ovvero il
codice fiscale: il tassista è un vecchietto leggermente sordo che
impiega un'ora per raggiungere Utica, la città, e 45 minuti in giro
a cercare l'edificio, in una città in cui sei fortunato se non ti
rapinano alla prima occasione. Nonostante proviamo a dirigerlo, lui
non ci sente e ad un certo punto infila una superstrada in contromano
“oopsss contromano, contromano.. dovrò girarmi!” ehm sì, magari
prima di schiantarci grazie!! Alla fine riusciamo a fare tutto e
tornare a casa tutti interi.
Gli americani amano le
riunioni, e soprattutto amano mangiare durante le riunioni. Durante i
primi due giorni partecipiamo a due riunioni alle quali non si sa
bene perché siamo stati invitati: nella prima si snocciolano cifre
da capogiro sul bilancio del college (che coprirebbe probabilmente il
pil della Sicilia, debiti compresi) e si divora cibo indiano, mentre
i relatori parlano con la bocca piena; nella seconda si presentano i
vari uffici del campus non per nome ma per sigla (il AHEPBT che si
trova nell'edificio del PAJFH CUE e collabora con il ENCIQMI per la
difesa dei LGBQT...) mentre mangiamo prima un'insalata col pollo e
POI dei mega panini, tentando di intuire cosa mai starà dicendo il
relatore di turno; poi ci fanno delle domande per “rompere il
ghiaccio” del tipo “se potessi scambiarti di posto con chiunque
per un giorno, chi sceglieresti?” e quando io rispondo “con la
moglie di Jon Bon Jovi” mentre altri dicono “con Obama”,
capisco che non sono esattamente nel mood adatto per l'ambiente.
Le banche americane aprono
conti come fare la spesa dal salumiere: mi scusi mi darebbe un etto
di carta di credito e mezzo etto di home banking? Certo, ecco qua..
ci sono $50 in più, lascio? Sì perché ad ogni stipendio
aggiungeranno $50 automaticamente al mio conto... casomai vedessi
soldi in più, so cosa sono (come se avessi avuto intenzione di
lamentarmi, in ogni caso!!).
Il paesino è perso nel
nulla, costruito a misura di SUV e assolutamente non abbandonabile
(neologismo, lo so!) se non in auto... quindi addio sogni di gloria e
di escursioni nel weekend, le città circostanti le potrò vedere
solo se e quando qualcuno mi ci porterà!
Non aprire quella porta!
E veniamo al tasto più
dolente di tutti, ovvero la situazione abitativa. Fino a due anni fa
gli Intern vivevano in case studentesche, col bagno in corridoio e
aree comuni per intenderci. Quando però sono sorti problemi di
natura legale derivanti da denunce per molestie da parte di studenti
e studentesse, hanno giustamente pensato che fosse meglio separare
gli ormoni studenteschi e quelli Internali. Fatto sta che adesso
viviamo fuori dal campus, ai piedi della collina, in case affittate
da estranei al college; tutti noi 6 Intern viviamo nella stessa casa,
divisi in due appartamenti. Quando Mat mi apre la porta il primo
giorno, non esordisce con “piacere” ma con “ok, non piangere,
andrà meglio!” che mi mette un po' in guardia: il nostro
appartamento infatti non è stato controllato prima del nostro
arrivo, perciò nessuno si è accorto che: non è stato pulito, con
conseguente proliferare d'insetti, sperando non siano i famigerati
bed bugs; il mio “letto” era un materasso sul pavimento (di
moquette bisunta); non avevamo armadi, soltanto una cassettiera a
testa; non avevamo tende e a volte neanche tapparelle; non c'erano
posate, pentole, bollitore, forno a microonde, caffettiera, utensili;
non avevamo lampade per le scrivanie; non c'è internet né
lavanderia; il colore delle pareti oscilla tra il vomito e la diarrea
(mi stupisco che lo VENDANO quel colore!!!). E non ultimo, al piano
superiore vivono degli studenti. Che abbatte il principio per cui
viviamo qui!
Dopo una settimana,
abbiamo risolto più o meno tre quarti dei problemi -a spese del
college, naturalmente- e tra qualche giorno dovrebbero risolvere
internet, la lavanderia e la pulizia. Nel frattempo sono comparsi
poster alle pareti (generosamente offerti dalla prof d'italiano) che
rappresentano Milano, Massa Carrara e la Cappella Sistina, e che
almeno nascondono parte del colore del muro; poi abbiamo comprato
mobili, tende, tapparelle, detergenti, tutto il necessario per la
cucina e soprattutto Nutella, pasta Barilla e salsa di pomodoro. Mi
devo accontentare perché l'olio d'oliva qua è un miraggio, ma
almeno adesso posso provare a chiamarla “casa”!
Ho appena finito di leggere tutto.
RispondiEliminaL'unico commento che mi viene da fare è: Che avventura!
Dai, andrà meglio, vedrai :)