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I racconti, i sogni, le speranze, i pensieri.. di tutto un po', per chi crede che Someday I'll be Saturday Night!

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DdV 4 - Come un bruco

Come da copione, anche a New York fa un caldo bestia. Certo che anch'io, son peggio dei giapponesi: New York in due giorni scarsi, come si fa?! Il primo impatto con i treni newyorkesi mi fa entrare già in un'atmosfera anni '60: interni in legno, controllore col cappellino con la visiera, sedili con lo schienale spostabile (per sedersi nel verso di marcia!). Come esco dalla Penn Station, mi sembra di essere entrata nel bel mezzo di un mucchio di stereotipi: grattacieli, traffico impazzito ma solo perché ci sono migliaia di taxi gialli, alle mie spalle il Madison Square Garden di tanti concerti famosi (Bon Jovi, per dirne uno...). Procedo nel caldo atroce, vedo Macy's, l'Empire State Building del quale ignoro volentieri l'ora e mezza di coda per salire in cima, la Grand Central Station che fa concorrenza a certi scenari da Harry Potter. Contrariamente a quanto si dice, la metropolitana non è complicata -anche se, in effetti, New York la si può girare tranquillamente a piedi-, ed accettano perfino il bancomat italiano, per i biglietti... wonderful! Il mio giro prevede un'ampia deviazione per andare a vedere un grattacielo ignoto ai più, ma che per chi ha letto La Torre Nera di Stephen King, è immancabile: al numero 2 di Hammarskjold Plaza sorge la Torre Nera del nostro mondo, aye Roland.
Superata questa pietra miliare, mi rituffo in un altro stereotipo: hotdog dal chiosco per strada, e che strada! La quinta, o meglio la celeberrima 5th avenue. Un'attività da prendere in considerazione, quella del chioschetto a Manhattan, un po' come il bar sulla spiaggia tropicale. Il mio giro prosegue al Rockfeller Centre -quello della pista di pattinaggio- e al vicino Starbucks, per rifocillarmi nella calura della City. Arrivo così alla ben nota Times Square, e mi chiedo se sono gli americani a copiare Piccadilly Circus o viceversa. Dopo un giro dovuto al negozio di giocattoli -dove c'è pure la ruota panoramica... e anche qua, chi ha copiato chi? Hamleys o ToysRus?- mi rilasso nella zona ristoro -praticamente, una serie di tavoli e sedie in mezzo a Times Square. Vicino a me si siede un'anziana giapponese che lavora a maglia, poi si avvicina un ragazzo per appoggiare il pacchetto di MacDonald's più unto che abbia mai visto e mangiare al volo il suo BigMac. Concludo il primo giorno a Central Park, giusto uno sguardo e poi via, a meritato riposo. Tutto sommato, ho sfatato molti dei miei pregiudizi sulla City: si respira una bella aria, di vita, di entusiasmo, non -come credevo- di frenesia e fretta.
Il secondo giorno lo dedico alla Lower Manhattan, ed ingenuamente compro il biglietto per la statua della Libertà: la fila per salire sul traghetto comincia praticamente a Brooklyn, ma è allietata dalle esibizioni di svariati artisti di strada. Per fortuna il caldo è mitigato dall'aria, ciò nonostante le mie spalle si colorano di una varietà amaranto-aragosta per niente tranquillizzante. I controlli prima di imbarcarsi sono come quelli dell'aeroporto, col metal detector... e naturalmente, chi si ferma e lo fa suonare quattro volte?! Italiani. Dal traghetto ammiro lo skyline di New York, e già da qui s'intuisce la voragine lasciata dalle Torri Gemelle. Arriviamo a Liberty Island, dove scopro che la statua non è così piccola come la descrivono, anzi! Sarà che il piedistallo è altissimo, ma l'insieme è imponente a dir poco. Proseguo per Ellis Island, dove mi abbiocco e mi risveglio a tratti mentre la voce di Gene Hackman racconta della superba magnanimità di questo paese che ha accolto milioni di poveri sporchi malati puzzolenti immigrati, viva l'America! E non si può descrivere lo sguardo schifato con cui la guida pronuncia "Italians" alla domanda su quale popolazione avesse portato il maggior numero d'immigrati a New York.
Al ritorno, scoppia un simpatico acquazzone estivo che mi fa rimpiangere l'ombrello, al sicuro dentro la valigia. Trovato riparo da Starbucks, mi dirigo poi a Wall Street, che non è altro che una strada molto affollata in fin dei conti, e verso Ground Zero. Ho fortemente voluto e molto temuto l'impatto con questo luogo, perché il mio 11 settembre è stata la data spartiacque tra l'ingenuità e l'innocenza dei miei 17 anni e il brusco risveglio a scoprire che no, l'America non era perfetta, il sogno americano era una bufala, c'era chi odiava l'America e chi l'America odiava a sua volta. E' stato il momento in cui tutti abbiamo perso la tranquillità, lo sguardo neutrale su chiunque avesse una barba e un turbante, la serenità di uscire soli di notte, il relax di viaggiare senza chiedersi cosa avessero tutti negli zaini. Questi giorni negli USA, curiosamente, mi hanno restituito un po' di quella leggerezza: quella tranquillità del "comunque vada sarà un successo", quell'apertura mentale che mi ha fatto sedere su un guard-rail nel mezzo del nulla, in piena notte, a chiaccherare con sconosciuti, senza paura. Ground Zero toglie il respiro. E' proprio così, guardi tutt'intorno poi improvvisamente ti viene da stare in apnea. Un vuoto che non si spiega, perché se vado a vedere le immagini di 9 anni fa, e le confronto con ciò che vedo ora, non mi spiego come siano rimasti in piedi tutti gli altri edifici. Le teorie complottiste acquistano sempre maggiore fascino. Ci sono due gru, non si sa a costruire cosa, non è chiaro e lo si scoprirà solo il giorno del decimo anniversario. Ma dalle gru penzolano due bandiere americane listate a lutto, ad eterna memoria... come se non bastasse il vuoto, a toglierti il fiato.

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